Ho raccolto rifiuti in Sri Lanka per preservare il sapore dei mirtilli.
Impariamo da bambini che le quattro forze della natura sono acqua, terra, fuoco e aria. Fin dalla nascita, diventano parte integrante del nostro percorso sulla terra, talmente tanto che tendiamo a dimenticarcene, e questo ci porta a non prendercene cura.
Eppure tutto comincia da lì, noi esseri umani cominciamo da lì. Abbiamo bisogno di riacquistare coscienza della nostra dipendenza dalle risorse naturali, per poi essere lieti di doverci prendere la responsabilità di preservarle.
Sono venuta in Sri Lanka con Togetherto per mettermi a servizio del pianeta Terra.
Ho raccolto un frullatore, un pannolino e innumerevoli bottiglie di shampoo. Non ero in una discarica, ero su una sponda della laguna di Negombo, in Sri Lanka.
La quantità di rifiuti presenti in questo Paese è eccessiva rispetto alle dimensioni del suo sistema di smaltimento e riciclaggio. Passeggiando per le strade delle città Singalesi – diverse da Colombo, la capitale – è raro trovare dei cestini della spazzatura: i rifiuti vengono gettati a terra o nell’acqua e la natura stessa è il grande cestino della spazzatura del paese. Spesso s’incontrano fuocherelli a bordo della strada o all’interno dei cortili privati degli abitanti. Cercando spiegazioni ho incontrato un tassista che cercando di rassicurarmi mi ha risposto: “Gli abitanti di Negombo bruciano spesso i rifiuti accumulati, è questo che il governo consiglia di fare”. È evidente l’inconsapevolezza o l’incuranza con cui vengono portate avanti queste pratiche, tuttavia il rilascio di sostanze tossiche dei rifiuti dati alle fiamme si intreccia alle emissioni ininterrotte di CO2 delle automobili, moto, tuk tuk, camion e autobus che affollano le strade, rendendo l’aria che si respira estremamente inquinata.
Non lontane sono le condizioni dell’acqua: basta avvicinarsi alla laguna o alle spiagge non turistiche – i resort si preoccupano di tenere pulite le aree private riservate ai loro turisti – per trovare isole di plastica galleggianti o abbandonate sulle coste. Tanti i cani randagi che ho visto camminare sopra questi cumuli di rifiuti e rovistarci nella speranza di trovare qualche rimasuglio di cibo. Altrettanti gli uccelli che beccano le buste di plastica come fossero briciole di pane. Tante volte sono stata testimone del destino di questi poveri animali: al mattino o dopo pranzo, ogni volta che mi è capitato di assistere a questa scena ho cercato in tutti i modi di allontanarli spaventandoli, ma invano. Fin da subito sono stata folgorata da un senso di colpa lancinante, constatando che il mondo sta morendo davanti ai nostri occhi e per nostra mano.
L’abuso di plastica è un vezzo che l’uomo si è ingiustamente concesso, senza preoccuparsi delle conseguenze e, col senno di poi, soprattutto delle vittime. Eppure la sua invenzione non è legata all’indifferenza di ciò che ci circonda. Il materiale plastico nasce negli anni 50’ con tra i vari obiettivi, quello di preservare certe specie animali le cui parti del corpo si prestavano ad una specifica utilità economica. Verso la fine del XIX secolo in Inghilterra iniziarono a nascere centri di industrie manifatturiere di capi d’abbigliamento e bottoni: tra i materiali più utilizzati c’erano l’avorio delle zanne degli elefanti, le corna di mucca, e i gusci di tartaruga. La crescita economica mise una grande pressione sul mondo animale, in quanto sempre più esemplari venivano cacciati e uccisi. Così, per combattere la strage di tartarughe, è nata l’esigenza di avere dei materiali sostitutivi: nacque allora uno dei primi antenati dell’odierna plastica.
È ironico dunque pensare come l’essere umano sia riuscito a trasformare un’invenzione a favore del mondo naturale in un’invasione esponenziale di spazi e di stomaci appartenenti ad ogni essere vivente sul pianeta.
L’uomo è l’unico essere vivente che può fare qualcosa per cambiare tutto ciò. Sebbene questo problema possa sembrare lontano dalla realtà “comune”, è fondamentale avvicinare una lente d’ingrandimento per capirne le varie sfaccettature: si tratta di una catena che ci raggiunge direttamente. Tanto i pesci, quanto gli uccelli non riescono a distinguere le microplastiche dal vero cibo, si riempiono di questo materiale tossico e tutt’altro che nutriente, poi arrivano sulle nostre tavole.
A Negombo, ogni volta che mi sono avvicinata a chiedere un’opinione ad un pescatore, ho ottenuto solo lamentele su quanto fosse diventato difficile portare a casa o al mercato qualche kilo di pesce fresco rispetto a dieci anni prima. Per loro, come per la maggior parte degli abitanti, è incomprensibile il motivo per cui oggi ci sia cosi poca vita nelle lagune, eppure non si fanno problemi a lasciar cadere i rifiuti raccolti dalle loro reti da pesca.
Una volta ho visto un pescatore lanciare un sacchetto di plastica nella laguna. All’inizio mi sono sentita impotente. Non mi sono sentita in grado di criticare il suo gesto o insegnargli come dovesse essere smaltito quel sacchetto di plastica. Avrei voluto spiegargli che i rifiuti gettati nel mare contribuiscono all’inquinamento della laguna e di conseguenza alla crisi di pesce che lui stesso soffre. Avrei voluto dirgli che se tutti iniziassero a buttare la plastica nei bidoni adibiti, i pesci della laguna si ripopolerebbero e cosi i loro portafogli. Ma in Sri Lanka, a Negombo, quasi non esistono i cestini dell’immondizia. Come posso rimproverargli questo gesto, allora, quando non posso proporgli un’alternativa? Comunicare con gli abitanti del posto poi è complicato, conoscono solo qualche parola d’inglese e faticano a comprenderti se non cerchi di usare una pronuncia simile alla loro.
Ci ho provato lo stesso. Approfittando del fatto che proprio lui avrebbe dovuto accompagnarci con la sua barca in giro per la laguna a caccia di isole di plastica, durante il tragitto ho provato a comunicare con lui, con frasi spezzate composte solo da qualche parola accostata tipo “plastic bad for fish (= plastica male per pesce)” oppure “plastic lagoon fish die (= plastica laguna pesci morire)”.
Le risposte del pescatore però sono state dei semplici “okay” seguiti da veloci cenni con la testa. Una volta scesi dalla barca, infilati guanti e stivali di gomma, ho messo da parte la mia preoccupazione per concentrarmi sulla montagna di plastica che avevo di fronte. Poco dopo, però, mentre mi avvicinavo alla barca per appoggiarci una sacca piena di rifiuti, ho notato un uomo locale che con un bastone cercava di raggruppare teli di plastica che galleggiavano sull’acqua. Era lui. Lo stesso pescatore che qualche ora prima aveva gettato in acqua un sacchetto di plastica, ci stava aiutando con la raccolta. Cosi, anche grazie a lui, siamo riusciti a liberare la baia dai rifiuti in un’ora e mezza.
Il pescatore, per me e i miei compagni della missione, è stata la prova che la “non conoscenza” non è strettamente collegata all’indifferenza. Per affrontare questo problema la prima cosa da fare è conoscerlo. Per questo motivo abbiamo deciso di non essere più solo partecipanti diretti al cambiamento raccogliendo noi la plastica, ma anche di essere promotori del sogno di una Terra più pulita. Ci siamo rivolti alle istituzioni.
Chi mai ha insegnato gli effetti collaterali dell’inquinamento da plastica ai pescatori di Negombo? I residenti che accumulano rifiuti nel retro della loro casa (talvolta per bruciarli) hanno idea di cosa provocano? Con il permesso del Responsabile comunale all’educazione, ci siamo recati dal preside di una scuola di Negombo, per chiedere di poter rendere partecipi anche i più piccoli, il futuro di questo paese. Una settimana dopo, eravamo pronti per la nostra lezione al St. Peter’s College di Negombo. I bambini ci osservavano ridacchiando, è insolito per loro vedere uomini e donne bianchi, con fisionomie diverse dalle loro. Tuttavia con una gentilezza disarmante si dimostravano curiosi di conoscerci, si avvicinavano per chiederci il nostro nome, la nostra età e provenienza. Non sapevano cosa fosse l’Europa, pero sapevano che noi eravamo lì per aiutarli, per aiutare la nostra Terra.
Abbiamo cercato di illustrare loro lo stretto collegamento tra la magnificenza della natura e il problema della gestione dei rifiuti, il fatto che se questa manca gli effetti collaterali colpiscono anche i delfini. Ci siamo incentrati principalmente sul problema della plastica, non perché sia l’unico tipo di rifiuto che creiamo, ma perché è di gran lunga il più dannoso e il più comune. Pare che il 99% del Great Pacific Garbage Patch sia plastica. Il problema, e anche la caratteristica vincente, di questo materiale è che non si degrada mai definitivamente, come accade invece per la carta. Al contrario, si disintegra in milioni di minuscoli pezzetti definiti microplastiche, le quali si infiltrano in quantità innumerevoli negli ecosistemi e cosi nella catena alimentare degli esseri viventi.
Dopo aver proiettato un video di noi che ripulivamo la laguna di Negombo, alcune bambine si sono voltate verso di me con gli occhi grandi e illuminati di chi si è appena reso conto di poter fare la differenza, anche se donna e anche se piccina. Una di loro, 11 anni e un’inusuale conoscenza dell’inglese, mi si è avvicinata per dirmi “Madam, can we help you clean the lagoon?” (tradotto “Signora, possiamo aiutarvi a ripulire la laguna?”).
Raccogliere rifiuti dagli ambienti naturali è un ottimo allenamento di consapevolezza e responsabilità. Spendere del tempo chinati su una spiaggia a raccogliere scarti maleodoranti si converte in fretta in una repulsione verso tutta la plastica monouso che ci viene rifilata quotidianamente. Inoltre, la soddisfazione di vedere una spiaggia ripulita supera le aspettative, e ti porta a realizzare che ogni pezzo raccolto è un pezzo in meno che può provocare il soffocamento di una tartaruga o l’indigestione di una balena.
Per poter prendere parte in questa lotta per una Terra pulita basta poco: modificare il nostro stile di vita favorendo scelte a minor impatto ecologico è la soluzione più immediata. Seppur rifiutare una borsa di plastica possa sembrare un gesto minimale e impotente, occorre ingrandire la prospettiva di ragionamento per capire le conseguenze che crea. È come lanciare un sasso in mare: questo sparisce ma genera tante onde concentriche che si allargano smuovendo una grande porzione di acqua. L’effetto diretto è certamente positivo, ma ancora più importante è la presa di posizione che comporta. Infatti, i piccoli cambiamenti nel nostro stile di vita servono da leva per richiedere grandi cambiamenti sistemici: il potere della mia scelta di andare a lavoro in bicicletta non risiede nel quantitativo di CO2 risparmiato all’atmosfera, ma piuttosto nella richiesta concreta di investimenti nell’urbanistica della mia città per permettere una miglior circolazione ai ciclisti. Corsie ciclabili serviranno a loro volta da incentivo ad utilizzare la bicicletta per altri cittadini. L’impatto positivo di fare scelte eco-friendly è dunque molteplice.
La risposta recentemente ottenuta da parte del Parlamento Europeo a questa crescita del movimento ecologico è una grande e stimolante conquista. È stato approvato in via definitiva lo stop alle plastiche monouso. Entro il 2021 sarà imposto agli Stati membri dell’Unione Europea di vietare l’uso di piatti, posate, cannucce, bastoncini per palloncini. Entro il 2029, dovranno essere raccolti attraverso la differenziata il 90% delle bottiglie di plastica. Entro il 2025, le bottiglie dovranno contenere almeno il 25% di materiale riciclato e il 30% entro il 2030.
Essere parte del cambiamento è facile, è alla portata di tutti ed è la diretta conseguenza della condivisione. L’ho imparato nel mio viaggio a Negombo: ho scoperto che bastano poche parole per coinvolgere chi ti guarda confuso, sorpreso o imbarazzato nella raccolta dei rifiuti a terra. La consapevolezza si può tramutare nella scelta di cambiare, ed ogni cambiamento apportato al nostro stile di vita servirà da esempio ad altri osservatori. Allora il mio è un invito a guardarsi intorno, ad accorgersi dei rifiuti a terra e di quelli creati, a contare le bottigliette d’acqua comprate al bar e le borse di plastiche portate in casa dal supermercato. Solamente portando questa attenzione potremo capire la portata di questo problema e scegliere di cambiare rotta.
di Ludovica Braglia